venerdì 2 febbraio 2018

NEL REGNO DI SORELLA MORTE – racconto inedito, parte 2


Riassunto breve
Nell'Italia devastata dalla peste, Ruggero è in cerca del fratello, scomparso nei pressi di Viterbo. Durante le ricerche, Ruggero si imbatte in due monaci, impegnati nel compito di recuperare i cadaveri degli appestati per dar loro una sepoltura cristiana. Insieme ai monaci, Ruggero raggiunge Viterbo dove spera di trovare notizie del fratello e del misterioso tesoro che aveva trovato a Costantinopoli e che stava portando con sé.

NEL REGNO DI SORELLA MORTE – PARTE SECONDA
Per un momento, mentre bussava alla porta del palazzo dei Gatti, Ruggero temette che la peste avesse finito di distruggere l’intera famiglia. Dove non erano riusciti secoli di lotta a favore del papato, poteva il morbo. Alla faccia del volere divino.
Dopo alcuni minuti, però, una vecchia serva giunse ad aprirgli e poco dopo venne ad accoglierlo Gualtiero in persona.
– Ruggero! Che ci fai qui? Tuo fratello è partito da Viterbo saranno venti giorni! – esclamò l’uomo, abbracciandolo.
Gualtiero Gatti era tra i cinquanta e i sessanta, coetaneo il padre di Ruggero, se fosse vissuto. Aveva lo stesso fare solenne e misurato che il giovane ricordava nel proprio genitore e la stessa ombra di malinconia in fondo agli occhi. Anche il palazzo ricordava a Ruggero la residenza della propria famiglia a Tivoli. Un edificio possente, dalle superbe finiture, ma ormai vuoto per la metà. Le vecchie famiglie guelfe, ora che il papa aveva abbandonato l’Italia, agonizzavano, si rattrappivano nei propri palazzi come lumache rinsecchite in gusci troppo grandi, aggrappate al ricordo di una gloria passata e a ideali traditi. Se non altro, pensò Ruggero, erano ancora fedeli le una alle altre.
Giffredo era passato da Viterbo ed era stato ospite di Gatti per alcuni giorni. Era ripartito, però, da troppo tempo per poter sperare che non gli fosse accaduto nulla.
– Se n’è andato proprio mentre arrivavano le prime notizie del ritorno della peste – raccontò il nobile viterbese.
La sala da pranzo semi vuota aveva un aspetto desolato, ma Ruggero era soddisfatto di essere sistemato vicino al camino e anche se la zuppa conteneva erbe, farro vecchio e poco altro, era calda.
– Non c’è stato modo di trattenerlo, era ansioso di tornare a casa e di incontrarti – continuò Gatti. – Mi è spiaciuto vederlo andare, non solo per il pericolo che stava affrontando. Abbiamo parlato a lungo di come far tornare l’Italia quella di un tempo. L’anno prossimo ci sarà il Giubileo e, se la peste finirà una volta per tutte, i pellegrini torneranno a percorrere la via Franchigena. Ad Avignone non c’è la tomba di Pietro, né la via per la Terrasanta.
Ruggero annuì, esattamente come immaginava avesse fatto Giffredo. Non aveva cuore di dire a quel vecchio nostalgico che riteneva che l’assenza del papa potesse essere un’opportunità. Pensò a Parigi e alla discussioni, alla sera, nelle locande, quando si mescolavano tutti, medici e avvocati, studiosi di matematica e di lettere, ognuno con il proprio entusiasmo e il proprio sogno per il futuro, senza alcuna paura di scontentare qualche potente prelato. Un rumore lo fece sobbalzare.
– Cos’è? – chiese.
– Lupi. Devono aver finito le ultime pecore dei greggi abbandonati e la sera arrivano fino in città in cerca di rifiuti.
Le labbra di Ruggero si incresparono.
– Perché sorridi? – gli domandò Gatti.
– Rido di noi e dei nostri sogni, di rifare grande l’Italia, in un modo o nell’altro. Ecco dove finiscono i progetti degli uomini, in un miasma portato dal vento e nell’ululare del lupo.
– Dio ci sta punendo per aver permesso al successore di Pietro di allontanarsi da Roma.
– Forse. Ma il papa non è morto e tanti bravi cristiani invece sì.

Nonostante la peste, Viterbo si sforzava di vivere. Chi non era malato doveva comunque mangiare, pregare, vestirsi. Molte botteghe erano chiuse, ma altre erano aperte. E adesso, se non altro Ruggero aveva un punto di partenza per cercare il fratello. Poco lontano dal monastero di san Tommaso, lunga la strada che conduceva al palazzo vescovile, che un tempo aveva ospitato i papi, trovò il maniscalco da cui Giffredo si era fatto controllare i ferri del cavallo, prima di partire.
– Certo che me lo ricordo, è stato l’unico cliente quel giorno – disse l’uomo. – Quando la gente non sa se arriverà sana alla sera o se vedrà la prossima domenica non si interessa certo alle zampe dei propri cavalli. Glielo ho detto e lui mi ha capito. Ha lasciato una buona mancia. Un vero signore.
Ruggero annuì. In un angolo c’erano tre bimbetti sporchi che giocavano ad accatastare dei vecchi ferri storti e Giffredo era proprio il tipo da lasciarsi impietosire quando c’erano dei bambini di mezzo. 
– Come vanno gli affari ora? – domandò
Il maniscalco scosse il capo.
– Come vuoi che vadano, messere? Gli unici clienti sono i frati di san Tommmaso, o della  Buona Morte, come li chiamiamo adesso. Vanno e vengono con il loro carro e seppelliscono i morti nel loro cimitero, laggiù, oltre le mura. Ma mica posso far pagare a loro? Almeno, se la peste mi prenderà, avrò le benedizioni che mi spettano.
Ruggerò annuì e cercò nel borsello qualcosa da lasciargli. Alla fine non era poi così diverso da suo fratello.
Quindi, pensò uscendo, Giffredo si era allontanato da Viterbo una ventina di giorni prima, in una bella mattina di metà ottobre. Aveva un cavallo ferrato di fresco, le bisacce piene di tutto quello che la cuoca di Gatti era riuscita a farci stare e un pugnale al fianco che destava il giusto timore. La notizia del ricominciare della pestilenza si stava diffondendo, ma la gente stava appena iniziando a morire. Il panico e la disperazione non si erano ancora impadroniti delle campagne. Eppure lui era scomparso.
Percorrendo la strada tra Roma e Viterbo, Ruggero aveva chiesto notizie del fratello a chiunque avesse incontrato. Nessuno lo aveva visto. Anche se la pestilenza aveva sconvolto le campagne, erano trascorsi solo venti giorni e Giffredo era un omone alto, dai capelli chiari come un predone dei mari del nord, era difficile che passasse inosservato. Solo il giorno precedente Ruggero era stato costretto a deviare, smarrendosi per le campagne e quindi allontanandosi dal percorso che avrebbe fatto fratello. Era probabile quindi che a Giffredo fosse accaduto qualcosa nelle immediate vicinanze di Viterbo. L’ultimo posto dove Ruggero aveva chiesto di lui era una locanda a un giorno di cavallo dalla città. Nonostante la peste, non aveva mai interrotto la propria attività e lì nessuno aveva visto Giffredo. Questo, tuttavia, lasciava presagire lo scenario peggiore. Fino alla sera precedente, Ruggero aveva sperato che suo fratello non avesse mai lasciato Viterbo e che si fosse fermato in casa Gatti in attesa che l’epidemia cessasse, o che magari si fosse lasciato convincere dal vecchio nobile a trascorrere del tempo in campagna con lui, per sfuggire al morbo. 
No, non l’ho mai creduto davvero.
Come quando era morto loro padre. Ruggero aveva solo dieci anni. Era una giornata d’autunno come molte altre. Adesso che ci pensava, era proprio lo stesso periodo dell’anno. Solo che allora l’autunno non era un periodo di morte, al contrario. Dai frutteti e dalle vigne tornavano i carri carichi del raccolto e nei giorni di sole suo padre andava a caccia, cosicché si mangiava carne rossa quasi tutte le sere. Nei pomeriggi ancora tiepidi, il precettore permetteva a lui e a Giffredo di restare nel cortile, a volte facevano lezione là, alla luce del sole, ed era più facile fingere di ascoltare le lezioni di grammatica latina, mentre invece spiava le ultime lucertole. Quel giorno, tuttavia, aveva sentito partire dalla base dello stomaco un’inquietudine che nulla riusciva a placare. Ricordava di essere finito in punizione perché non riusciva a ricordare neppure le più semplici forme verbali né a mettere nel giusto ordine l’elenco degli imperatori romani. Era stato costretto dal precettore a ricopiare un numero infinito di volte i verbi che aveva sbagliato e Giffredo gli aveva portato una mela rossa per consolarlo. Ricordava la voce tranquilla del fratello maggiore che cercava di dirgli che a tutti era capitato, almeno una volta, di irritare in quel modo il maestro e lui non riusciva a spiegargli che non gli importava per nulla né della brutta figura né della punizione, che c’era qualcos’altro che non andava, ma non sapeva cosa. Proprio nel momento in cui si era lasciato convincere a mordere la mela, nel cortile erano entrati i cacciatori, troppo presto rispetto al solito, con i cani che abbaiavano nervosi. Poi i due fratelli avevano sentito le porte sbattere e le grida delle donne.
Ruggero scosse la testa, allontanando i ricordi. Era a cavallo da tre ore e la strada si era inerpicata tra colline e boschi. Sulla sua destra la parete rocciosa era butterata di crepe e fenditura. A sentire le storie, un tempo le grotte scavate nel tufo erano abitate da monaci eremiti, sant’uomini che attendevano che il cielo desse loro di che sostenersi. Dovevano essere morti tutti di fame, perché Ruggero non ne aveva mai visto uno e quei ripari erano utilizzati piuttosto di pastori. Adesso, però i pastori chissà dove si erano rifugiati e il giovane si scoprì a guardare con sospetto le colline. Se un viaggiatore isolato fosse stato assalito in quel punto, nessuno sarebbe accorso in suo aiuto, l’ultima fattoria era un’ora dietro di lui.
Dopo venti giorni era impossibile trovare delle tracce. Tuttavia, un sentiero che si diramava dalla strada principale attirò l’attenzione di Ruggero. Qualcuno vi era passato di recente, eppure sembrava portare verso la cima della collina, dove non vi era nulla. In altri momenti, in altri autunni, avrebbe potuto pensare a cacciatori, raccoglitori di ghiande o di funghi, carbonai, ma da che aveva lasciato Viterbo non aveva incontrato nessuno. Solo chi aveva una necessità impellente osava spostarsi nel regno di sorella Morte e nessuno, certo, deviava senza motivo dalla strada principale.
Con cautela, imboccò il sentiero. A ogni passo la sua inquietudine cresceva. Sembrava studiato apposta perché chi lo percorresse rimanesse nascosto dalla vista di chi si trovava sulla strada. Terminò bruscamente, in apparenza contro la parete rocciosa ricoperta da rampicanti e cespugli. Qualcuno, però, aveva impastoiato di recente delle bestie a un’albero lì vicino. Si notavano ancora i segni degli zoccoli e sull’erba calpestata rimanevano tracce di paglia.
Ruggero scese da cavallo e scostò i cespugli. Come sospettava, nascondevano l’ingresso di una piccola grotta. In un angolo vi era una cassetta di legno. Il giovane trattenne il fiato mentre l’apriva. C’erano due pugnali e una mannaia. Non avevano alcuna decorazione all’impugnatura, ma le lamae affilate e ben pulite, gli attrezzi da lavoro di un assassino. Al di sotto, vi erano cinque sacchetti, di quelli che i viaggiatori portano alla vita, con le monete. Uno, di stoffa rossa, conteneva ancora, tra le altre, una moneta veneziana.
Ruggero si strinse il sacchetto al petto, incurante delle monete che vi cadevano, mentre le lacrime gli scendevano lungo le guance. 

— Continua

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