mercoledì 12 agosto 2015

True detective, stagione 2 – visioni


Dov'è la bellezza? Mi chiedo alla prima puntata.
Dove sono le inquadrature perfette, gli uccelli che disegnano simboli nel cielo, gli alberi magici, i vortici di stelle, il desolato splendore che è metà del fascino di quel gioiello irripetibile che è la prima stagione di True Detective? La risposta è che non c'è, volutamente, nessuna bellezza in questa seconda stagione.
La serie antologica di Pizzolatto lascia la Luisiana e le anime tormentate, ma a loro modo pure, di Rust e Marty, per andare in una California sporca e corrotta, marcia fin nel midollo. Lascia l'epos (o la Genesi) e si addentra nella tragedia greca.
Come in ogni buona tragedia greca che si rispetti, le colpe dei padri ricadono sui figli (se va bene, la terza generazione si salverà), gli eroi sono macchiati (e marchiati) e sanno di esserlo, come sanno di essere condannati, e basta un singolo evento a far precipitare tutto in pochissimo tempo.
C'è quindi un politico corrotto che viene trovato morto in un limbo giurisdizionale con gli occhi bruciati dall'acido. Le indagini vengono quindi affidate senza troppe speranze a tre detective di tre giurisdizioni: Velcoro, uomo tormentato che si è venduto l'anima per vendicare lo stupro della moglie, Paul, giovane detective in fuga da se stesso e Antigone che, come il suo nome insegna, è contaminata senza averne colpa ed è quasi condannata a dispensare giustizia. A loro si aggiunge l'affarista/malavitoso Frank, a cui la morte del politico ha creato non pochi problemi. Anima tormentata anche la sua, di mafioso quasi per necessità, con una sua integrità da salvaguardare.
All'inizio l'indagine procede con una lentezza quasi snervante, mentre si delineano ombre di rapine di vent'anni prima, si parla di traffici di ragazze, di terreni contaminate e di colpe di padri che sempre più pensano sulle spalle dei figli, che a loro volta le faranno ricadere sui propri figli.
Quando quasi stai per non poterne più, inizi a pensare che ti sei affezionato a queste quattro anime tormentate. A Velcoro, principalmente, retto da un bravissimo Colin Farrell, detective corrotto e colluso, eppure umanissimo, ad Antigone, sempre in bilico tra l'essere vittima e angelo vendicatore, a Frank, che a modo suo rimane un brav'uomo (oltre ad essere l'unico in grado di organizzare dei piani con un po' di testa). Come tutti gli eroi da tragedia greca, ben presto capiscono che non c'è alcuna speranza di lieto fine, eppure vanno avanti lo stesso, lottando al meglio delle loro possibilità, fino ad affrontare a testa alta l'unico finale possibile.
Questa seconda stagione di True Detective chiede molto, forse anche troppo, allo spettatore. In soli otto episodi imbastisce quattro storie intricate per i quattro protagonisti che devono poi vedersela con una storia ancora più intricata e variamente intrecciata con il loro passato. Ne risultano lunghi dialoghi snervanti (specie nei primi episodi) e un senso generale di oppressione e marciume che, se non sorretto da trovate visive, diventa insostenibile.
Rimane però il coraggio, dopo quel gioiello limpido che è la prima stagione, di aver completamente cambiato registro e di non aver tentato di replicare i punti di forza. La mancanza di virtuosismi visivi e di personaggi ipnotici si paga, ma è una scelta voluta.
Rimane anche il fatto che alla fine, quando tutto si è compiuto, in uno dei rari scorci di bellezza e un certo messaggio non parte, la lacrimuccia scappa, segno che la serie a colpito al di là di tutti i "ma" e di tutti i "se".
La prima serie di True Detective ipnotizza ed è impossibile non rimanerne affascinati. È epos allo stato puro, luce contro tenebra, di una bellezza abbagliante.
La seconda serie è una cupa e contorta tragedia sofoclea, oppressiva nella messa in scena, a volte ridondante nei dialoghi, senza via di fuga. Chiede uno spettatore paziente e attento. Ma alla fine rimane l'impressione che ne sia valsa la pena.

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