venerdì 20 febbraio 2015

Naufragi – Racconto breve




NAUFRAGI

Il sudore scorre e porta via. 

Porta via le tossine, gli umori cattivi, scivola sul viso, sopra la barba e se ne va. 
Bagna prima la fronte, poi le guance, scende in torrenti che scavano canyon sulla pelle. 
Goccia a goccia bagna i pensieri ed ad uno ad uno li trascina via, relitti nella piena. 
Il sudore scorre e porta via. 
Passo dopo passo l’aria è fatta di molecole da spezzare e da attraversare, scorre sulla pelle e porta via.
Passo dopo passo i pensieri si fanno indistinti, parti del paesaggio notturno, lampioni offuscati di foschia, alberi spogli. L’aria passa e porta via, i pensieri si sciolgono dentro al sudore e scorrono via, non si possono più inseguire, rimane solo un ritmo da tenere e chilometri da percorrere. Non c’è più tempo, solo un presente sospeso, un ritorno ritmico sempre dalla stessa partenza. Allora si vorrebbe continuare così, a correre nella notte che avanza, solo per conservare questo tempo interrotto…

Finisce il sudore prima che finisca la notte. La luna si alza e il tempo riprende il suo corso. Carlo si ferma e guarda la luna. Si potrebbe correre, in sere come queste, fino a raggiungerla, basterebbe continuare laggiù, oltre l’ultimo lampione sopra il ponte, dove la notte e la nebbia si fondono e la luna attende. 
Ma la luna in cielo non accenna un invito.
Carlo si china, si toglie le scarpe e sceglie la doccia.  

Scende l’acqua e lava il sudore, rende i pensieri. Carlo torna ad essere creatura di terra, dopo un ultimo abbraccio caldo di amante. Non c’è più tempo di guardare la luna. 

Carlo ha ancora i capelli umidi davanti al campanello di casa, naufrago giunto a una terra su cui non vuole approdare. 
Mara gli apre la porta, suo sorriso è una maschera di cera. 
Arrivano effluvi di patate, carote e fagioli che si mescolano in minestra dentro la pentola, in cucina; il divano ha un sentore di cuoio e il pavimento profuma di detersivo lavanda passato ogni pomeriggio alle quattro.   

Un luogo dove preparare la tavola insieme, con movimenti sicuri e sguardi di rito. 

Si versa la minestra nei piatti, si spande il vapore, si mescola al profumo dei capelli di Mara.
 – Buon appetito. 

Carlo osserva la moglie da sopra il cucchiaio. 
Ogni giorno che passa è un oltraggio che non vuole affrontare. Mara non si arrende ai cinquant’anni. Lotta ogni settimana dal parrucchiere, lotta ogni settimana dall’estetista. Ogni ruga è la stoccata di uno schermitore a cui ribattere colpo su colpo. Centellina la verdura sul cucchiaio, è una guerra da combattere chilo su chilo. Sotto il maglione scorza d’albero il corpo è quasi quello che Carlo ricorda, ma è un dato precario. Mara ha negli occhi la stanchezza di una guerra che non si può vincere. Carlo cerca una corda da lanciare oltre il vuoto.
– Hai preso il regalo per Lorenzo e Anna?
– No, dovrai andarci tu, domani.
– Credevo che avessimo scelto quei bicchieri. – difficili quesiti di cristallo.
– Li hanno finiti. Vai tu a vedere cosa è rimasto allo spaccio. Non mi interessa cosa prendi, l’importante è che sia di marca e non costi troppo. C’era gente, oggi, in ferramenta?  
– Come al solito. Abbiamo finito le punte per i trapani. Devo ricordarmi di ordinarle, domani. 
– Devi anche andare a pagare il gas, che se no scade. 
Carlo annuisce posando il bicchiere di minerale. Dentro, le bollicine vanno verso l’alto danzando prima di sparire. Non hanno bollette da pagare, né regali come doveri da adempiere, loro, solo una superficie da raggiungere e contro cui morire…
– Me ne ricorderò. Cosa hai fatto oggi?
– Ho pulito i pavimenti. 
Non c’è orgoglio nella voce. Mara li pulisce ogni pomeriggio, trincerandosi dietro il profumo di lavanda. Chissà dove si rifugia la polvere sfrattata? Sulle menti e sulle anime. 
Mara pulisce la sua anima sul divano di pelle nera due volte la settimana. Si toglie il maglione, lascia cadere la corteccia, scaccia la polvere dai pensieri. 
Carlo le osserva le mani che spezzano parsimoniose un grissino. Come si muovono quelle mani dalle unghie sfumate di rosa sulla schiena di lui? Lo avranno esplorato, diligenti, come soldati su un territorio straniero o si saranno arrese in un abbraccio senza lotta? Labbra avide o remissive, cose da prendere o da dare, su quel divano?
Lui ha i capelli bruni, probabilmente tinti, che Carlo ha trovato sui vestiti di lei e un deodorante Pino Silvestre. Un nome a cui quasi di certo da del tu. Sarà stato seduto a quella stessa tavola, vestito da amico o da parente? Ha senso trovargli un viso o un nome? Per cosa? Regalargli bicchieri rotti, cocci taglienti avvolti in strascichi di recriminazioni? 
Mara si aggrappa alla sua schiena sopra il divano, prima o dopo aver versato lavanda sul pavimento come  napalm sopra le palme.
Ogni naufrago cerca il suo relitto a cui affidarsi.

Carlo torna a guardare la moglie, il pasto è finito senza che il suo sguardo l’abbia scalfita. Si alzano insieme, portano i piatti al lavello sfiorandosi senza incrociarsi, senza toccarsi: quello tra il tavolo e il lavandino è uno spazio da occupare, non da vivere. Si accumulano i piatti utilizzati, macerie di un pasto consumato. 

Dovrebbero inventare anche detersivi per le anime, lavatrici di sentimenti, che portino via i rimpianti come briciole. Come le briciole che cadono dalla tovaglia che Carlo scuote oltre la finestra. Qualche passero domattina le troverà. Qualche uccello dovrebbe venire a mangiare anche i rimasugli di un amore finito, portarne via i segni e lasciare il mondo pulito…

Mara ha acceso la televisione, passano informazioni sui capi di moda per l’inverno e poi stralci di carni straziate e fumi di esplosioni, da qualche parte nel mondo, dove il dolore fa rumore e notizia. Qui è solo l’acqua che scorre, un brusio di fondo di piatti puliti e riposti in mobili di finto rovere. 
Carlo passa lo sguardo dai cadaveri del telegiornale alla pelle restaurata di lei. Ci sono accenni di rughe incombenti, ma il fondotinta leviga e nasconde. Nasconde dietro il suo viso qualsiasi espressione. Carlo vorrebbe quasi spiarle un sorriso, ricordo di una gioia da cui è escluso. Un pretesto per far bruciare la cera. Mara non sembra avere gioie nascoste e il divano laggiù è solo una fuga incompiuta che pian piano affonda dentro la tempesta. 

Si parla di Luca che è fuori a cena anche questa sera e non vuole andare all’università. Forse fuma qualche spinello, Mara vorrebbe parlarci, ma Carlo scuote la testa e guarda fuori dalla finestra, alla ricerca della luna che non si vede.
Tutti cerchiamo di addomesticare il tempo, invece di arrenderci ad un nemico che non si può combattere. E dimentichiamo di farci coraggio a vicenda.
– Non ho voglia di litigare. 
– Tu non hai polso, Carlo. 
Carlo annuisce, accettando il giudizio. 
La televisione ribatte con un nuovo bombardamento. Gente di polso, che si illude di esistere con più forza degli altri. Che ha bisogno di distruggere per provare a sé stessa la propria esistenza. 
La notte li assedia. E ognuno cerca la sua fuga, per convincere la mente che il buio possa rimanere fuori, un momento di tempo sospeso, una zattera di fumo, un relitto sul divano. Che senso ha poi giudicare quale detrito sia migliore?
– Cosa fai domani sera? Vai a correre? 
– Sì. 
Lo sbuffo di lei è un rapido calcolo del tempo che resta tra il pavimento e la cena, altra polvere da esiliare, altra morte da eludere e dimenticare.
– Io vado a cena con le colleghe, per il compleanno di Nadia.

Non sembra aver voglia di festeggiare, Mara, forse di piangere o di urlare. 
Non si può raggiungere la luna, per quanto si corra e ci si affanni. 
Non ferma la morte o il tempo che scorre incrociare i bicchieri e fingersi amici per una sera. Fingere che l’agonia di un anno trascorso sia motivo di musiche e feste, tanto assordanti da non fare ascoltare il suo grido. Perché forse anche quel tempo morente vorrebbe una mano per farsi aiutare e restare ancora, per sempre, presente.

Carlo guarda la luna che ascolta il suo grido inespresso. Guarda la moglie a cui non sa tendere la mano.
Possiamo solo cercare una zattera e tentare di addomesticare il tempo che fugge.
Ma dimentichiamo di farci coraggio a vicenda.

14 commenti:

  1. Bello!
    Mi è piaciuto molto, anche perché io non parlo mai dei problemi che hanno le persone di mezza età, preferisco raccontare il mondo dei trentenni.
    Unico appunto, mini-refuso: prima c'è scritto Sara, poi Mara. :)

    P.S. Anche "gli occhi delle ragazze innamorate" parla della dura vita di tutti i giorni. Quello è un racconto che si avvicina molto a ciò che io scrivo.

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    1. Grazie per il refuso, ora correggo.

      A me piace tuffarmi un po' in tutte le età e trovare gli altri dentro di me. Questo Carlo, uomo cinquantenne deluso dalla vita, è quasi agli antipodi rispetto a me, tanto che per incontrarlo sono partita dall'unico tratto che abbiamo in comune: la corsa.

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    2. Io invece mi rendo conto ora di trascurare completamente la mezza età, un po' come tu fai con l'infanzia (almeno stando al tuo post). Certo, dei cinquantenni ci sono, nelle mie storie. Ma raramente hanno un punto di vista dominante. Non mi focalizzo quasi mai sui loro problemi... magari in futuro chissà.
      Al contrario, bambini e adolescenti compaiono piuttosto spesso.

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  2. Un bel racconto... Come faccio con le storie che mi colpiscono, anche stavolta non ho potuto esimermi dallo scriverne uno in risposta :)

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  3. C'è proprio poco da fare: le cose da quaggiù hanno un senso e da lassù un altro. Però sempre uguale, perché ogni medaglia ha un rovescio, ma solo uno! :)
    Bello il pezzo della luna!

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  4. Questo commento è stato eliminato da un amministratore del blog.

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  5. Scusate, ho eliminato un commento spot sul calcio perché non mi sembrava pertinente.

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  6. Un grido inespresso, spazi da utilizzare, non da vivere, una gioia che esclude: tutti ingredienti riusciti per una storia che apre uno squarcio di quotidianità all'interno di una coppia in crisi. Di grande attualità!

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  7. Come diceva Tolstoj: "Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo."
    Bel racconto!

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